Artist: Miserere Luminis
Title: “Ordalie”
Label: Sepulchral Productions
Year: 2023
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Canada
Tracklist:
1. “Noir Fauve”
2. “Le Sang Des Rêves”
3. “La Fêlure Des Anges”
4. “Les Couleurs De La Perte”
5. “De Venin Et D’Os”
Il sangue di sogni, la linfa di desideri, di ogni variopinta possibilità, e il tremendo frastuono muto e interiore del loro sfracellarsi al suolo, in quell’oceano di asfalto che grandissima parte della specie conosciuta come uomo moderno identifica nel concetto stesso di casa – per non rialzarsi. Non restando, nel farlo, tuttavia realmente fermi a terra: bensì forti, a peculiar proprio modo, dell’atto ribelle di non risollevarsi quale un nuovo stimolo e nuova prospettiva raggiunta dal basso, nella lettura inedita di non doverci riprovare imperterriti come vorrebbe invece il mero sforzo asservito alla retorica del meritocratico e del caparbio vincitore delle sfide nella vita – la retorica del massacro, in altre parole. In questa novilunica benché ossimorica e anche controintuitiva speranza, un suggerimento: non gettarsi quindi a capofitto nella mischia per un eroismo d’altri tempi presumibilmente mai esistiti, ma rimanere bassi tanto di profilo quanto di sguardo; il consiglio di reagire rasoterra alla propria distruzione accettando una condizione che, qualora abbracciata, diventi catalizzatore a sua volta di una tetra, forse sardonica e beffarda potenzialità insita nella comprensione dell’insuccesso di Prometeo, d’Icaro e di tutti i superuomini che non hanno acconsentito al dover salire sulle spalle dei giganti per poter guardare oltre – credendo le proprie tristemente autosufficienti.
Beninteso, quella realizzazione mai deve tramutarsi in disrispetto o disprezzo; pena sarebbe il negativizzarsi polare di quell’hybris traditore dell’anti-divino tornando al punto di partenza sebbene giungendovi dal lato opposto del percorso. Affinché un potere dall’analisi esperienziale nasca, occorre dunque tutto il tempo, tutti i tentativi e l’attenzione che Annatar, Icare e Neptune sembrano dal 2013 aver sottratto con successo ai loro oggi congelati gruppi -fino a dieci anni fa principali nonché unici- per proseguire in una simbiosi a tre teste la mistica dell’assoluto sperimentata nell’omonimo progetto-album “Miserere Luminis” quasi quattro anni prima. Quel che infatti accade in “Ordalie” che lo segue, volendo procedere srotolando con un balzo il nastro che Crono pare aver stritolato fino ad oggi, è strabiliante in senso sia stretto che largo: dal canto stilistico, il duo dei Gris coadiuvato dal deus ex-machina dei Sombres Forêts mescola ogni influenza preventiva del lungo concept collaborativo targato 2009 per creare un nuovo disco infinitamente più ampio ma coerente, ricco in scopi benché coeso e concreto. Sensatissimo nella sua tesissima struttura e nel suo rinnovato, persino ammodernato linguaggio; e proprio sotto l’aspetto strutturale, d’altro canto, viene esercitata una enorme cesura per una compattezza qualitativa inedita che condensa ogni briciola e goccia di idee nel suo indiscriminato, incondizionato meglio per sfruttare e riempire di pura emozione distillata ogni secondo che compone i quattro titanici brani, presi come sono “À L’Âme Enflammée, L’Äme Constellée…” (sia parte prima che seconda: titolo integralmente citato non a caso) e “La Mort Du Soleil” come modelli espressivi ma anche estetici da unire e versare nel colatoio non dissimilmente a nobili metalli fusi tra loro in una nuova matrice.
In altre e solo parzialmente più povere parole: se i modi emotivamente appesantiti dei Katatonia attuali (o quantomeno tra il ponte temporale che permette con una innegabile continuità di percorrere lo spazio tra “Viva Emptiness” e “Dead End Kings”) e la poetica atmosferica degli Jesu, oppure dei The Angelic Process di “Weighing Souls With Sand”, potessero avere un sorprendente figlio creativamente legato al (più o meno) solo linguaggio espressivo del Black Metal, quest’ultimo suonerebbe con ogni probabilità all’incirca come “Ordalie”: un supplizio di finissima atmosfera non privo di una luminosità tale e quale a quella di una fiammata prepotente che viene da dentro, da cui fuggire in qualche modo oppure restarne polverizzati nella corsa alla salvezza; una collaborazione tra menti da sempre devote alle forme più dilazionate e dolorose del genere che prende tutto il meglio dei già citati e ora palesemente anagraficamente gemellari “À L’Âme Enflammée, L’Äme Constellée…” (si pensi a “Igneus”, ma persino alle tensioni orchestrali già dell’ormai a buona ragione leggendario “Il Était Une Forêt”) e “La Mort Du Soleil” (exempli gratia: “Étrangleurs De soleils”, o “La Disparition”) sommandone da un lato le parti più dure, concrete, e limando dunque dove a loro modo eccedevano in ambizione o cripticismo musicale ma reinventandolo ed allontanandolo al contempo dalle maggiori disomogeneità e divagazioni di quell’omonimo “Miserere Luminis” del 2009, il quale sembrava essere un one-off di grande sperimentazione a sei mani tra i putativi padri Gris e Sombres Forêts.
Tra pesantezza che potremmo tranquillamente definire Post-Black Metal e un’amara melodicità tendente verso il basso a dispetto delle continue ascensioni dello spirito tra le crepe della dorata maschera musicale (“Le Sang Des Rêves”, nella sua archistica seconda metà dal gusto classico), la preziosità squisita di queste cinque nuove tracce toccanti vertici di oltre tredici minuti lo dimostra benissimo: i Miserere Luminis sono a pieno diritto divenuti, non solo per merito di una attività live che -benché non certo frenetica- ha comunque eclissato l’impegno con le due rinomate band originarie nella malsana ombra di un altro progetto vero e proprio, non è chiaro se il sostitutivo definitivo e netto delle band per così dire madri, ma in qualunque caso un nuovo, attuale, e decisamente non minore figlio che regala una qualità a queste non solo paragonabile ma persino superiore. La sensibilità batteristica Dark-Jazz, quella soffusa dei White Ward di “False Light” che apre “Noir Fauve” e le danze in toto, viene tenuta e sviluppata quale punto di unione ritmico-strutturale anche nei frangenti in cui il gruppo va clamorosamente a toccare i suoi parametri più dissonanti di sempre (l’opener, certamente, ma anche le ibridazioni più tecniche di una commovente “La Fêlure Des Anges”). E mentre le disarmonie che chiudono sottili il grandioso crescendo del secondo brano pizzicano i nervi come corde lungo il farsi generalmente sempre più plumbeo dell’atmosfera, viene sperimentato qualcosa di prossimo a tutta l’intensità poetica dei Celeste periodo Denovali senza alcuno dei loro tristemente soliti momenti a vuoto, riempiti di una raffinatezza e classe che si fa al contrario straziante materia solida: ora pesantissima, un macigno nero fulvo di una dolcezza morente, ora invece un vento di archi organizzati ed arrangiati come a voler accompagnare i tre solisti in un solo corpo ultraterreno per intimissima musica da camera, mentre tutto attorno esistono solo fiamme urlanti, crepitanti un canto terribile intonato alla distruzione. Pezzi di un paradiso fattosi rogo disperato e asfissiante, nella schiacciante pesantezza Post-Metal dell’attacco elettrico vero e proprio in “Noir Fauve” come nella sensazionale seconda ripresa di “De Venin Et D’Os”; le vestigia delle stelle rotte, riflesse in lacrime quali frammenti della perfezione che perfora a morte il tessuto della notte come un’arma da fuoco di dolore nell’eleganza di quello stormo di violini e violoncello in escalation quasi infinita nel ponte pre-conclusivo “Les Couleurs De La Perte”, specchiati nelle aperture più ariose del poker di altri effettivi pezzi. L’intensificazione e l’intricatezza compositiva dell’ultimo brano, altro specchio in timing di un disco che vive di abrasione e dramma e che in questo senso si chiude a busta, con quel famigliare pianoforte a coda come in un notturno, in un sentore di realizzazione e completezza, non confonda: ce lo suggeriscono le superlative voci sfasciate a sgolarsi che trattasi della medesima, antica ferita in un certo qual senso. Ma una che, giunti a questo sofferto punto, per quanto possibile è stata curata; un’ordalia, un giudizio tramite supplizio -appunto- fatto per essere attraversato ed uscirne sanati, possibilmente migliori nei riguardi e nei confronti della sinistra e contorta arte dell’esistere.
In ottima sostanza, quel che dopo quattordici anni dal loro primo sforzo in unione collettiva raggiungono le menti riunite sotto al vessillo Miserere Luminis è la stesura accurata e minuziosa benché mai asettica di un saggio, sensibilmente vissuto ed esplorato più che materia di mero studio, sulla rassegnazione e sul peso devastante del resisterle fattosi musica, un potentissimo manifesto: un salmo della ferita aperta su quanto l’abbandono possa essere forte e catartico, liberatorio nonostante la sua esuberante violenza che va -piaccia o meno- accettata in ogni caso. Usata, se si riesce, nel più sano dei casi: “Ordalie” si regala infatti quale splendida rappresentanza di uno di questi ultimi, pantone delle sfumature di colore della perdita, mentre la speranza è condannata colpevole di aver inghiottito ogni forma di luce con terrificante ingordigia. Perché forse in fondo vero è che noi, in quanto mortali, non siamo che ombre e quella stessa polvere che in vita ci soffoca: la proiezione oscura e sfuggente di un’esistenza rimasta impigliata per il tempo di un respiro nella tela dell’eternità; l’impalpabile materia di schiuma, come quella del mare sebbene ormai privata di vita e di amore, resa arida come la consistenza friabile di ciò che non c’è più.
– Matteo “Theo” Damiani –